venerdì 11 febbraio 2011

Il Foglio: Silvio Berlusconi nelle fattezze giustinianee

L'apoteosi, l' eccesso di zelo, può scollinare nella più feroce satira, ne sia cosciente o meno l'autore dell'apoteosi.

Certo Seneca ne era cosciente quando celebrava l'elogio funebre all'imperatore Claudio, (conosciuto anche con il titolo de La zucca divinizzata) farcito di lodi talmente esagerate, da provocare negli ascoltatori ripetuti e mal repressi scoppi di risate. Seneca così descriveva poi la morte di Claudio:
"Spirò mentre ascoltava dei commedianti (capisci ora che ho le mie buone ragioni per evitarli). Le sue ultime parole ad essere udite tra i mortali, dopo che ebbe prodotto gran rumore dalla parte con cui più facilmente parlava, furono queste: "Ahimè...mi sono smerdato!".
Se proprio l'abbia fatto non lo so: certo in vita ha smerdato ogni cosa." (Seneca, La zucca divinizzata, Apoteosi di Claudio, ed. Quid, Santa Marinella, Roma, 1993, III, pag. 14).
Su Il Foglio di oggi e rappresentato "Silvio Berlusconi nelle fattezze giustinianee" come recita la didascalia sotto la raffigurazione e c'è da pensare che l'eccesso di zelo abbia giocato un brutto scherzo a Il Foglio.
Infatti se certo si può grandemente onorare il Presidente del Consiglio raffigurandolo come l'Imperatore Giustiniano, l'operazione può trasformarsi nel suo contrario se per esempio si conoscono i giudizi che Procopio illustre contemporaneo dell'Imperatore Giustiniano dava dello stesso e della sua moglie.

Ecco come Procopio “l’ineccepibile storico delle guerre bizantine” ha descritto la “verità” di sangue, delirio e corruzione sul pio imperatore Giustiniano e sulla grande Teodora”.

Ecco la sua descrizione di Giustiniano:

“Era un mascalzone, semplice però da manovrarsi, quello che si chiama cattivo e stupido, mai veritiero con la gente, ma ambiguo sempre in tutto, nelle parole e nei fatti, eppure facile preda di chi voleva imbrogliarlo. Si era realizzata in lui una singolare combinazione costituita da follìa e malvagità. Gli calzava bene il detto di un antico filosofo peripatetico: nell’indole umana capita che si fondano gli opposti, come nella tavolozza dei colori. Sto scrivendo cose che non sono arrivato a toccar con mano.

Questo imperatore era dunque falso, subdolo, artefatto, cupo nelle sue ire, doppio, un essere terribile, bravissimo nel fingere un’opinione, in grado di piangere non per la gioia o per il dolore, ma a comando nel mmento propizio; bugiardo sempre, ma con convinzione e impegnandosi con dichiarazioni scritte e i giuramenti più solenni, e nei confronti dei suoi stessi sudditi.

Dagli accordi e dagli ipegni si ritirava subito, come i peggiori degli schiavi, che giurano e ritrattano per paura della tortura che li aspetta. Amico incostante, nemico implacabile, appassionato dedito a assassinii e furti, attaccabrighe e sempre lieto di buttar tutto all’aria, facile alasciarsi convincere a crimini, refrattario a qualunque invito all’onestà, sottile nell’escogitare e realizzare ribalderie; considerava sgradevole anche la fama delle buone azioni. Nessuno troevrebeb parole adeguiate a descrivere il carattere di Giustiniano. Dimostrò di avere questi difetti ed altri anche peggiori in misura non certo umana: pareva che la natura avesse tolto al resto del mondo la perversione per concentrarla in lui.

Oltre a tutto, era sensibilissimo alle calunnie e fulmineo nel punire. Non giudicava mai in base a un’accurata inchiesta: ascoltava la falsa accusa e subito emetteva la sentenza. Non esitava un momento a siglare provvedimenti che decretavano distruzione di paesi, incendio di città, asservaggio di intere popolazioni, senza una ragione al mondo. Insomma, se uno mettesse a confronto tutti i disastri capitati ai Romani dal principio con quelli di oggi, credo che il macello compiuto da questo individuo largamente superi il sangue sin qui versato complessivamente.

Non aveva remore ad impadronirsi con rara insensibilità del denaro altrui; nemmeno si degnava di cercare una scusa, uno schermo legale all’usurpazione dei beni di terzi. Una volta che erano suoi, era pronto a sentirsi superiore e, con vacua prodigalità, a buttarli via, dandoli ai barbari, senza motivo. Insomma, di denaro non riusciva a averne lui, ma non lasciava neanche che ne avessero gli altri, come fosse dominato non dalla cupidigia, ma dall’invidia verso i benestanti.

E così bandì rapidamente la prosperità dall’intero impero, divenne elargitore di una miseria generale.”

Ed ecco invece la storia dell’imperatrice Teodora, che inizia quando la stessa segue le orme della sorella Comitò:

“La maggiore, Comitò, era già diventata famosa tra le cortigiane della sua età; Teodora, la seconda, vestita di una tunichetta con le maniche, come una schiava, le andava dietro, pronta ai suoi servizi: in particolare si caricava sulle spalle il cuscino adoperato dalla sorella per i suoi convegni. In quel periodo Teodora era ancora troppo acerba per andare a letto con un uomo e accoppiarsi con lui normalmente: intratteneva però sconci rapporti di tipo maschile con degli sciagurati, e per di più schiavi, che accompagnavano i padroni a teatro e, come accessorio dell’occasione loro offerta, si dedicavano a obbrobri del genere; e anche nel lupanare trascorse parecchio tempo, esercitandosi in siffatte pratiche contro natura.

Appena arrivata alla pubertà e sviluppata fisicamente, si aggregò alle attrici e passò immediatamente a prostituta, della specie una volta chiamata “da truppa”: non sapeva suonare il flauto o l’arpa, non aveva mai imparato a ballare, si limitava semplicemente a offrire le sue grazie a chi capitava, impegnando tutto quanto il suo corpo.

Poi si associò a dei mimi in ogni tipo di spettacolo teatrale, partecipò allo loro rappresentazioni, prestandosi alle loro buffonerie e pagliacciate. Era molto spiritosa e mordace […] si spogliava e mostrava nudo il davanti e il didietro, a chiunque, contro la decenza che vuole coperte certe parti e nascoste alla vista degli uomini.[…] Mai ci fu donna più schiava del piacere in ogni sua forma: spesso andava ai banchetti con dieci giovanotti o anche di più, notevolmente vigorosi e veri professionisti del ramo, e si metteva a letto con tutti per l’intera notte; quando li aveva sfiniti, passava ai loro servi, magari una trentina, e faceva all’amore con ciascuno di essi, senza riuscire neanche così a placare la sua lussuria.

Una volta, in casa di gente di riguardo, durante un banchetto, davanti agli occhi di tutti i convitati, dicono, salì sul bordo del suo letto conviviale, e si tirò su sconciamente le vesti che le coprivano le gambe, senza vergognarsi di esibire in pubblico la sua dissolutezza. Utilizzando i tre orifizi, se la prendeva con la natura perché non le aveva fornita di capezzoli con fori più larghi, per inventarsi un’altra forma di piacere. Spesso restava incinta, ma conosceva tutti i mezzi che le garantivano un immediato aborto.”

Procopio poi descrive l’incontro di Teodora con Giustiniano che ne viene immediatamente preso:

“[Teodora] dopo aver percorso tutto l’Oriente, riapprovò a Bisanzio: in ogni città aveva esercitato un mestiere che, a nominarlo, un uomo perde per sempre, credo, la misericordia divina, come se il diavolo non permettesse che qualche luogo ignorasse la sfrenata lussuria di Teodora.

Ecco come nacque e fu allevata e divenne famosa fra le tante prostitute e in mezzo agli uomini. Appena tornata a Bisanzio, Giustiniano si accese di lei in maniera violenta e in un primo momento se la tenne come amante, anche se l’aveva elevata al rango di patrizia. Per Teodora fu facile acquistare uno straordinario potere e procurarsi una fortuna ragionevolmente cospicua. Perché a Giustiniano la cosa più bella (come capita a chi perde la testa per amore) pareva elargire all’amata ogni favore e ricchezza. In questo caso la politica fece da scintilla della passione. Con le accanto, Giustiniano riuscì a rovinare ulteriormente il popolo, non solo a Bisanzio, ma nell’intero territorio romano. ” (Procopio di Cesarea, Carte segrete, Ed. Garzanti, Milano, 1981, VIII pag.45,46;IX, pag. 48, 49; IX, pag. 51)









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