È nei momenti topici che per il Partito Comunista
Italiano è stato normale cercare l’accordo con il potere costituito qualunque
esso fosse.
Era stato normale che nell’agosto 1936 il PCI pubblicasse
su Lo Stato operaio un appello “Per
la salvezza dell’Italia riconciliazione del popolo italiano!” che inneggiava,
con tanto di punti esclamativi, al programma fascista del 1919:
“Popolo
Italiano!
Fascisti
della vecchia guardia!
Noi
comunisti facciamo nostro il programma fascista del 1919, che è un programma di
pace, di libertà, di difesa degli interessi dei lavoratori….”
Appello che terminava con un:
“Diamoci
la mano, figli della nazione italiana! Diamoci la mano, fascisti e comunisti,
cattolici e socialisti, uomini di tutte le opinioni. Diamoci la mano e marciamo
a fianco a fianco….”.
(I brani dell’appello in Vittorio Vidotto, Il Partito Comunista italiano dalle origini
al 1946, Ed. Cappelli, Bologna, 1977, pag. 314ss).
Questo appello venne
firmato dai maggiori dirigenti del PCI, primo firmatario: Palmiro Togliatti.
Nel 1947 la cosa si ripeté, questa volta la
collaborazione da cercare non era più con i fascisti, ma con i democristiani.
Sotto la presidenza
del comunista Terracini si riunì l’Assemblea Costituente nella seduta
pomeridiana del 25 marzo 1947, per votare l’art. 7 della Costituzione, quello
che recepì i Patti Lateranensi del 1929 e li mise nella Costituzione nata dalla
Resistenza.
I parlamentari
democristiani che non erano certi del voto favorevole dei colleghi comunisti,
ignari dei contatti ufficiosi tra Togliatti e De Gasperi in favore dell’art. 7,
gridarono contro Togliatti, che rispose:
“Sono convinto che in un consesso di prelati romani sarei stato
ascoltato sino alla fine con più sopportazione di quanto voi non mi abbiate
ascoltato.”
(in Capitini Aldo,
Piero Lacaita, stato sovrano e ipoteca
clericale. Gli Atti dell’Assemblea Costituente sull’art. 7, Lacaita Ed.,
1959, pag. 483).
Dal ché si può capire che Togliatti avrebbe
preferito parlare della Costituzione italiana più con i prelati vaticani che non
con i parlamentari italiani.
Andiamo avanti. Le
“larghe intese” a cui si riferisce in questi giorni Napolitano negli anni ’70
quando furono teorizzate venivano chiamate “compromesso storico”, cioè
compromesso, collaborazione tra DC e PCI “per la salvezza nazionale”.
Compromesso storico
per la salvezza nazionale che trovò il suo culmine - praticamente il suo inizio e la sua
fine - nei giorni dell’uccisione dei cinque uomini - Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Jozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi - della scorta di Aldo Moro e del suo rapimento e poi uccisione, ad opera delle Brigate Rosse il 16 marzo 1978.
Strage di via Fani e
procedura d’urgenza per la fiducia al governo monocolore DC presieduto da Giulio
Andreotti, andarono quasi in parallelo. Andreotti ottenne il voto anche dei
comunisti. Ebbe così la fiducia della quasi totalità del Parlamento.
Praticamente un
Parlamento senza opposizione, un parlamento del 100%.
Riassumendo.
Nel 1936
quell’ “appello ai fratelli in camicia nera”, fu un vero e proprio disastro
politico, perché aveva dato una dignità un riconoscimento al fascismo e nel contempo svuotato di
ogni significato il sacrificio fatto fino ad allora dagli antifascisti che
avevano in molti, perso la vita od erano imprigionati. Fascismo che di lì a poco avrebbe prodotto le
leggi razziali e avrebbe partecipato alla II guerra mondiale con un esito
disastroso.
Negli anni ’70 il
compromesso storico ebbe pure lui ricadute negatrici e distruttive della politica:
andò a sfociare in un monocolore Andreotti e diede la dignità di oppositori
agli assassini delle Brigate Rosse.
I partiti si
convinsero che potevano fare tutto ed il contrario di tutto: non c’era più
ideologia, non c’era più idea di fondo, progetti per il futuro – vero o falso
che fosse - ma solo ed unicamente ginnastica del potere per il proprio interesse.
Gli anni del
compromesso storico lungi dall’avere riempito di nuove possibilità la
democrazia fondata sulla nostra Costituzione, hanno preparato il terreno
“del tutti sono uguali”, “non c’è più né destra, né sinistra”, “la meritocrazia
è l’unico metro con il quale si misura la persona (chi misura chi?)”, “il PIL è
l’unico metro con il quale si misura un Paese (chi misura chi?)”, “è la legge
di mercato”, ed altre amenità come queste.
Siamo giunti così ai
nostri giorni al grido di “Viva la democrazia, abbasso le elezioni”.
Abbiamo avuto
nell’ultimo anno un Governo che ha fatto decreti “Salva Italia” e chiesto ed
ottenuto fiducie dalla quasi totalità del Parlamento.
Un governo però il cui
Presidente ed i cui Ministri si sono autoproclamati tecnici e non sono stati
eletti da nessuno. Governo cooptato dal Presidente della Repubblica Napolitano
nella persona del Presidente del Consiglio che a sua volta ha cooptato i propri
Ministri.
Di “larghe intese” in
“larghe intese” le intese sono diventate talmente larghe che comprendono oramai
tutto: si può essere capo del governo ed ottenere la fiducia del Parlamento
indifferentemente anche se non eletti (Governo Monti). Si può diventare capo
del governo in nome del puro liberalismo privato principalmente perché in
possesso della concessione delle
frequenze TV pubbliche, di tutti noi (Governi Berlusconi).
Domani si potrà
diventare capo del governo non essendo né capo del governo, né eletto in
Parlamento, ma semplicemente perché titolare unico ed assoluto di un sito WEB
(vedi non-governo Grillo).
Le leadership
plebiscitarie, di Berlusconi, Monti e Grillo (che da buon ultimo vuole il 100%
dei consensi e si vanta che nel M5S estremisti di destra e di sinistra si
abbracciano) sono i frutti delle larghe intese.
Certo Presidente «Ci volle coraggio in quella
scelta inedita di larga intesa».
Ci volle un bel coraggio.
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