E’ la nuova frontiera della tassazione, è il decentramento fiscale e così via.
Il primo atto di questo nuovo modo di considerare le tasse è stato quello di toglierne una locale cioè l’ICI: imposta comunale sugli immobili.
Il contrario di quello che si va ad affermare.
Visto che è inutile criticare senza proporre. Dopo la critica, ecco una soluzione alternativa senza oneri a carico di nessuno.
Seguendo la filosofia del federalismo fiscale bastava che il singolo contribuente continuasse a pagare l’ICI al proprio Comune e nel contempo la togliesse dall’Importo dell’IRPEF che lo stesso versa allo Stato.
Togliendola invece ai Comuni si costringono gli stessi a dipendere ancor di più dal Governo centrale, proprio in nome del federalismo.
giovedì 29 maggio 2008
(1) Federalismo fiscale: l'ICI
(2) Federalismo fiscale: addizionale regionale, addizionale comunale
Ma l’Italia è uno Stato fortemente centralizzato, la cultura del centro è in ogni dove: si cura il centro delle città; si salvaguarda il centro di ogni cosa compresa la virtù che è logicamente in centro.
Il federalismo che si va annunciando oltre ad essere una contraddizione in termini - federare politicamente significa avvicinare tante parti divise e non dividere una unità – rischia di moltiplicare il centro in tanti centri quanti sono per esempio le Regioni od i Comuni.
Anche le Regioni ed i Comuni hanno così comportamenti che sono un “copia incolla” di quelli del Governo centrale.
Per capire meglio questo concetto è bene esaminare una tassa di cui nessuno parla e che la maggior parte dei contribuenti ne ignora l’esistenza: si tratta dell’Addizionale regionale all’IRPEF e dell’ Addizionale comunale all’IRPEF, tasse che incassano le regioni ed i comuni in cui si abita.
Una tassa di cui nessuno parla perché è nascosta ed automatica.
Una tassa per la quale un contribuente con un reddito annuo di 26.500 Euro che vive nella Regione Emilia Romagna e nel Comune di Bologna ha pagato negli anni dal 2005 al 2007, le seguenti cifre:
Anno 2005 - Add. Regionale E. 229,00
Anno 2006 – Add. Regionale E. 239,00 + 4,4%
Anno 2007 - Add. Regionale E. 375,00 + 56,5%
Ciò significa che dal 2005 al 2007 l’addizionale Regione Em. Romagna è aumentata del 63,5% (229,00 x 63,5% = E. 374).
Per brevità si tralascia di riportare gli importi dell’addizionale comunale che ricalcano gli aumenti di quella regionale e che del resto ogni lavoratore dipendente può vedere nel propri CUD di ognuno di questi anni.
L’aumento del prezzo del pane, della pasta, del latte di cui sentiamo e leggiamo quasi tutti i giorni, è costato e costa molto meno al singolo che non l’aumento, del tutto ignorato, delle varie addizionali.
Nessuna carica istituzionale della Regione Emilia Romagna e del Comune di Bologna, né delle opposizioni nelle medesime istituzioni ha spiegato o chiesto di rendere ragione se non dell’esistenza e dell’utilizzo di quelle addizionali, almeno di tali aumenti i cui incrementi nei tre anni non sono stati raggiunti nemmeno dal prezzo del petrolio che ha come riferimento non un comune od una regione, ma il mondo intero.
Se poi vogliamo restare in Italia si può osservare che il prezzo della benzina ha avuto nei tre anni esaminati questo andamento:
2005 costo medio annuo benzina E. 1,22 litro
2006 costo medio annuo benzina E. 1,28 litro + 5%
2007 costo massimo raggiunto E. 1,37 litro + 7,1%
con un aumento nei tre anni del 12,5% (1,22 x 12,5% = E. 1,37)
(3) Federalismo fiscale: molto probabilmente la cancellazione dell'ICI l'abbiamo già pagata in anticipo
Con gli importi e gli aumenti delle varie addizionali ai livelli sopra visti si può dire che l'ICI è stata praticamente recuperata ancor prima di essere abolita.
Vi è un'altra considerazione da fare ed è questa: se con le varie addizionali si è voluto recuperare l’ICI prima di toglierla si deve osservare che in questo modo l’ammanco derivato dalla sua cancellazione è stato integrato anche da chi la casa non la possiede, infatti le addizionali ed i loro aumenti hanno colpito tutti: possessori e non possessori di appartamento.
Cancellando in questo modo l’ICI si è di fatto cambiato nome ad una imposta si è così allargata la base dei contribuenti e gli Enti locali hanno probabilmente incassato di più di quando la tassa si chiamava ICI e non addizionale.
(4) Il sistema fiscale italiano:IRPEF, addizionali varie, tasse che non si percepiscono
Ma come è possibile che si possa pagare - con un reddito di 25.600 Euro l’anno, per seguire l’esempio di cui sopra – un importo di 5.600 Euro circa di IRPEF e di 500/600Euro di addizionali, senza averne alcuna percezione?
Per capirlo bisogna andare indietro nel tempo, precisamente agli anni ’70 del XX secolo.
In quel decennio è accaduto qualcosa che oggi consente agli imprenditori, ai politici ed ai vertici sindacali di dire che i lavoratori dipendenti devono avere più soldi nella busta paga, non aumentando l’importo degli stipendi e dei salari – che sarebbe la cosa più logica essendo i salari e stipendi italiani tra i più bassi d’Europa - ma diminuendo la voce “tasse” nella stessa busta paga.
Negli anni ’70 è successo cioè che le tasse sono diventate una componente della busta paga, attraverso la riforma fiscale.
In quegli anni la scena politica era dominata dal dibattito sul “Compromesso storico” a cui tendevano il Partito Comunista Italiano e la Democrazia Cristiana.
Erano gli anni la cui scena sociale era occupata da stragi di cittadini inermi nelle piazze e sui treni e di assassinii di gente inerme sulle strade.
I lavoratori dipendenti si videro da un mese all’altro diminuire improvvisamene lo stipendio.
Cosa era avvenuto?
Era accaduto che da quel momento in poi nella busta paga dei lavoratori dipendenti ci sarebbero state le tasse.
La paga mensile dei lavoratori dipendenti era decurtata dell’IRPEF ancora prima che potessero materialmente incassare l’imponibile che generava quell’IRPEF.
Era cioè accaduta una mutazione nel DNA della Repubblica Italiana. I lavoratori dipendenti avevano come esattore non una figura che rappresentava lo Stato, ma i rispettivi datori di lavoro.
Cioè il lavoratori dipendete non versava più nulla. Il datore di lavoro prelevava, prima di pagarlo, dalla sua busta paga l’importo delle tasse, per poi versarle allo Stato.
Questo creava anche la possibilità per i datori di lavoro disonesti, come già poteva accadere per i contributi previdenziali, di trattenere per sé anche l’IRPEF non versandola allo Stato.
Con questo modo di incassare le tasse si manifestava la massima sfiducia verso i lavoratori dipendenti e la massima fiducia nei confronti dei loro datori di lavoro.
Datori di lavoro che con il passare degli anni oltre che esattori dello Stato lo sarebbero diventati anche delle Regioni, Province, Comuni.
(5) Sistema fiscale italiano: una mutazione costituzionale
L’articolo 15 della Costituzione, nella parte dedicata ai Diritti e Doveri dei cittadini, recita al paragrafo uno:
”La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili.”
Significa che una busta con sopra il nome di un cittadino può essere aperta solo dal cittadino stesso. Quella busta, così come il domicilio e la libertà personale di ognuno di noi è inviolabile.
Dopo la riforma fiscale degli anni ’70 invece nella busta paga dei lavoratori dipendenti “mette le mani” il datore di lavoro, facente funzione nell’ordine: dello Stato, della Regione, della Provincia, del Comune. Solo dopo quelle incursioni il lavoratore ha tra le mani la sua busta paga che “apre” per ultimo e nella quale trova ciò che è rimasto delle varie sottrazioni.
Ecco perché non percepisce né il numero delle imposte né la quantità di denaro che ha versato
perché in effetti lui non versa nulla e quindi non può percepire una cosa che non fa.
E’ questa la grande trovata a cui negli anni ’80 si aggiungerà il meccanismo dell’8 per mille e quello del 5 per mille, che nessuno versa materialmente.
L’approdo di questa mutazione genetica avvenuta negli anni ’70 è stato in questi giorni la possibilità che in modo anonimo ed attraverso internet si potesse accedere alla visione del reddito, gli uni degli altri.
(6) Sistema fiscale italiano: i Patronati diventano CAAF
Questa mutazione nel modo di pagare le tasse da parte dei lavoratori dipendenti in Italia è stato attivato con l’assenso operoso dei sindacati dei datori di lavoro, dei sindacati dei lavoratori, nonché dei massimi due partiti dell’epoca: la DC al governo ed il PCI all’opposizione.
Tutto ciò ha avuto conseguenze concrete. Ha rafforzato presso la classe politica la posizione dei datori di lavoro: erano diventati gli esattori ed i vettori di una parte importante delle entrate dello stato, del denaro cioè che sarebbe stato utilizzato dai politici di turno.
Ma è stata rafforzata anche la posizione dei sindacati dei lavoratori. Infatti con l’andar degli anni anche loro sono entrati operativamente nel tragitto che le tasse dei lavoratori dipendenti fanno verso lo Stato.
Se i datori di lavoro prelevano l’IRPEF dei propri dipendenti, i sindacati dei lavoratori sono diventati attraverso i vari patronati e Centri Assistenza Fiscale, i commercialisti dei lavoratori dipendenti.
Curano infatti la compilazione del 730 ed il calcolo, fino ad oggi, dell’ICI. Per questo servizio ricevono un compenso sia dallo Stato che dal singolo contribuente lavoratore dipendente.
(7) Sistema fiscale: il lavoratore dipendente, incapace di intendere e di volere.
Il sistema fiscale introdotto negli anni ’70 ha indebolito la posizione dei lavoratori dipendenti che nel momento della celebrazione della loro “forzata onestà contributiva”, sono trattati perciò stesso come evasori sia pure potenziali in quanto impossibilitati ad esserlo.
Pur “versando” le tasse per intero i lavoratori dipendenti risultano non avere “capacità contributiva”, non decidendo infatti di pagarle. Chi non ha “capacità contributiva”non esiste socialmente.
Quindi “soggetti” fiscali che diventano “oggetti” ai quali non si deve alcuna spiegazione: l’automatismo di prelevamento nel quale chi “versa” non ha nessuna parte attiva facilita la dimenticanza delle istituzioni che introducono od aumentano tasse, perfino di comunicarlo al tassato.
E le altre componenti sociali che pagano le tasse?
Nulla. Continuano a pagarle direttamente allo Stato. Hanno un rapporto diretto con lo Stato.
(8) Sistema fiscale italiano: emergenza
Quando quasi come un unico sistema, i politici, i sindacalisti, i giornalisti, i religiosi indicano argomenti all’ordine del giorno come: i rom, l’Alitalia, la microdelinquenza, la spazzatura, le cellule staminali, l’aumento della benzina, l’aumento del prezzo del pane etc.
Quando si è sempre in emergenza, quando l’emergenza è una componente costante della nostra vita politica, culturale e sociale, c’è qualche cosa che non va.
Quando si passa da emergenza ad emergenza senza mai risolverne una, c’è qualcosa che non va.
Sorge il dubbio che qualunque e chiunque ne sia il protagonista si può affermare che si è in presenza di distrazione dell’attenzione del cittadino, specie del più disarmato, colui che chi sta nelle istituzioni considera già un oggetto.
giovedì 22 maggio 2008
(1) - Maggio 2008 – Benedetto XVI visita la Liguria.
Papa a Savona: Nessuna pressione può far tacere la Chiesa.
Nell’omelia della messa celebrata in piazza del Popolo per oltre 30 mila fedeli ha lodato l’esempio di “serena fermezza” dato dal Pontefice Pio VII che riuscì comunque a far pervenire “messaggi, nascosti anche nei cestini della verdura”, impedendo in questo modo che Napoleone potesse procedere a nominare lui stesso i vescovi.
Questo è quello che ha detto in sintesi l’attuale Pontefice Benedetto XVI lodando il comportamento del suo collega Pontefice Pio VII verso Napoleone.
E’ utile per comprendere il grado di informazione ricevuta dai fedeli riuniti n piazza del Popolo, vedere cosa è anche successo tra Pio VII e Napoleone.
(2) - Luglio 1801 – Pio VII e il Concordato con la Repubblica Francese di Napoleone
Pio VII come molti altri papi prima e dopo di lui, concordò con il potente di turno. In quell’anno era Napoleone Bonaparte. Il Concordato sottoscritto da Pio VII e Napoleone riguardava sia cose temporali sia discipline ecclesiastiche e fu vergato come si legge “in considerazione dell’utilità che dal presente Concordato ridonda all’interesse della Chiesa e della religione.”
Al Concordato il Cardinale Legato Caprara, in nome della Santa Sede, premette le seguenti parole:
“Noi vi annunziamo, o Francesi, colla maggior gioja e colla più dolce consolazione, come un effetto della bontà del Signore, il fausto adempimento di ciò che fu l’oggetto delle sollecitudini del nostro Santissimo Padre Pio VII fin dai primi giorni del suo Apostolato, quello dei vostri voti i più sospirati, dei vostri desiderj i più fervidi, io voglio dire del ristabilimento della religione nel beato vostro paese, dopo tanti mali che avete sofferti. […]
L’utilità della Chiesa, il desiderio di conservar l’unità, la salute delle anime, furono i soli suoi motivi in tutto ciò che fece per adattare ogni cosa ai tempi e ai luoghi. Se quindi paragonasi il nuovo ordine stabilito negli affari ecclesiastici col disordine generale che vi esisteva prima, non v’ha alcuno che non debba rallegrarsi di vedere la religione cristiana ristabilita in tanto migliore stato. Sembrava essa quasi annichilita agli occhi di tutto il mondo; ed ora, sostenuta dalle leggi e protetta dall’autorità suprema del Governo, rinasce maravigliosamente. IL PRIMO CONSOLE della vostra Repubblica, A CUI DOVETE PRINCIPALMENTE UN SI GRAN BENEFIZIO, che venne destinato a restituire l’ordine e la tranquillità all’afflitta Gallia, SIMILE AL GRAN COSTANTINO, impresa la protezione della cattolica religione, lascierà di sé e de’ presenti tempi nei monumenti della Chiesa gallicana, un’eterna e gloriosa memoria.” (da Achille Gennarelli, La Politica della Santa Sede e gli atti del Buonaparte, Ed. G. Mariani, Firenze, 1862, pag . XV, XVI).
Oltre a paragonare Napoleone al “Gran Costantino”, la Chiesa nella persona di Pio VII riconobbe la Repubblica Francese. Tutti i vescovi precedenti, sia costituzionali che refrattari, furono sostituiti da altri, nominati dal Primo console, cioè da Napoleone, ed insediati dal papa. I vescovo poi dovevano giurare fedeltà alla Repubblica francese. Forte di questo Concordato Napoleone l’anno dopo, 1802, viene nominato, attraverso un plebiscito, console a vita.
(3) - Settembre 1803 – Pio VII e il Concordato con la Repubblica Italiana di Napoleone
(3) - Settembre 1803 – Pio VII e il Concordato con la Repubblica Italiana di Napoleone
Al Concordato con la Repubblica francese, si aggiunse nel 1803 un Concordato tra Pio VII e la Repubblica italiana che era sempre sotto il potere di Napoleone.
Il riconoscimento da parte di Pio VII della Repubblica italiana di Napoleone avveniva nonostante la Repubblica italiana fosse formata in gran parte da province pontificie:
“Per esso il Papa tratta con la Repubblica Italiana, formata in gran parte di pontificie province, e così la riconosce; non solo, ma accorda al Presidente di questa Repubblica la scelta di tutti gli Arcivescovi e Vescovi nella medesima compresi, cioè quelli di Bologna, Ravenna, Ferrara, Imola, Carpi, Cesena, Forlì, Faenza, Rimini. Comacchio. Non basta: concorda perfino la seguente formula di giuramento da prestarsi dai Vescovi e Arcivescovi – Io giuro e prometto sui Santi Evangeli ubbidienza e fedeltà al Governo della Repubblica Italiana. Similmente prometto che non terrò alcuna intelligenza, non interverrò in alcun consiglio, e non prenderò parte in alcuna unione sospetta o dentro o fuori della Repubblica, che sia pregiudievole alla pubblica tranquillità, e manifesterò al Governo ciò che io sappia trattarsi o nella mia diocesi o altrove in pregiudizio dello Stato.” (da Achille Gennarelli, La Politica della Santa Sede e gli atti del Buonaparte, Ed. G. Mariani, Firenze, 1862, pag. XIII, XIV).
Fino a qui la “serena fermezza” di Pio VII verso Napoleone lo aveva portato, tra l’altro, a concordare la nomina dei vescovi sia francesi che italiani da parte delle rispettive autorità civili, nonché a fare giurare gli stessi vescovi fedeltà alle rispettive repubbliche.
(4) - Dicembre 1804 – Pio VII a Parigi per l’incoronazione di Napoleone Imperatore
Il carattere del suo rapporto con la Chiesa aveva evidentemente concesso a Napoleone molti bonus. Il suo status continuò ad ingrandirsi.
L’autoincoronazione di Napoleone imperatore a Notre Dame a Parigi venne benedetta da Pio VII e la formula pontificale venne cambiata da “Imperatorem eligimus” in “Imperatorem consacratori sumus”, accompagnata dalle note del“Veni Creator Spiritus”.
L’anno dopo, 1805, Pio VII si troverà nel Duomo di Milano per la cerimonia l’incoronazione di Napoleone come Re d’Italia.
(5) - Pasqua 1808 – Napoleone diventa "Christianissimo imperatore nostro".
Nella primavera del 1808 anche la Toscana fu annessa all’impero napoleonico. Le autorità bonapartiste sollecitarono i vescovi toscani affinché riformassero la liturgia della Settimana Santa particolarmente in due punti. Il primo sostituendo alla classica preghiera per l’imperatore dei Romani un’orazione per Napoleone “Christianissimo imperatore nostro”.
Il secondo punto lo vedremo dopo.
I vescovi di Chiusi, Pienza, Pistoia, Prato, Pescia, Fiesole, Livorno, il vicario generale di Firenze, l’arcivescovo di Pisa si attivarono immediatamente prescrivendo ai rispettivi parroci che nelle funzioni della Settimana Santa in preparazione alla Pasqua del 1808 si pregasse per Napoleone.
Pio VII accettò l’iniziativa e si dichiarò d’accordo. In quella Settimana Santa si pregò nelle chiese toscane per Napoleone quale “Christianissimo imperatore nostro”.
(6) - Maggio 2008 – Benedetto XVI visita la Liguria.
(6) - Maggio 2008 – Benedetto XVI visita la Liguria.
Di tutti questi anni di collaborazione tra Pio VII e Napoleone nelle parole di Benedetto XVI sono rimasti i “messaggi, nascosti anche nei cestini della verdura”, che non hanno lasciato traccia nella storia, essendo appunto “messaggi, nascosti anche nei cestini della verdura”.
Ben altra traccia ha lasciato il comportamento di Pio VII rispetto all’uso dei concordati con i potenti di turno: si pensi ai concordati tra Pio XI e Mussolini nel 1929, e tra Pio XI e Hitler nel 1933. Ma non mancherà l’occasione di tornarci sopra.
(7) - Ancora Pasqua 1808 - Pio VII e gli ebrei perfidi.
Ma qui ora interessa il secondo punto lasciato in precedenza in sospeso cioè la richiesta da parte delle autorità bonapartiste di riformare nella Settimana Santa del 1808, cioè di cambiare l’espressione perfidis Judaeis presente nella solenne liturgia del Venerdì Santo, con altre meno definitive come “accecati giudei” o “giudaica cecità”.
Da Roma Pio VII rispose che se per Napoleone non c’era alcun problema nel considerarlo “Christianissimo imperatore nostro”, vi era il divieto assoluto di sostituire nella preghiera per la conversione dei Giudei, il “perfidi” con “accecati” o “perfidia” con “cecità”:
“Se si facesse ora un cambiamento parrebbe che la Chiesa avesse fin'ora errato, e riconoscesse ora negli ebrei non più un errore di malizia e di ostinazione, ma di semplice cecità e ignoranza”. (da Monsignor Giuseppe Croce, “Pio VII, il cardinal Consalvi e gli ebrei”, in “Pio VII papa benedettino”, Badia di Santa Maria del Monte, Cesena).
(8) - Agosto 1871 - Pio IX e gli ebrei cani
Pio IX il 24 agosto del 1871 davanti ad un gruppo della Pia Unione delle donne cattoliche di Roma
Così parlava degli ebrei:
“Or gli Ebrei, che erano figli nella casa di Dio, per la loro durezza e incredulità, divennero cani.
E di questi cani ce n’ha pur toppi oggidì in Roma, e li sentiamo latrare per tutte le vie, e ci vanno molestando per tutti i luoghi. Speriamo che tornino ad essere figli.” (in “La Voce del S. Padre Pio Nono”, 1874, Fascicolo Nono, Bologna, Tipografia Felsinea, Strada Maggiore, 206, pag. 264, 265).
(9) - Febbraio 1945 – Pio XII e gli ebrei perfidi, increduli
Siamo a Roma nel drammatico febbraio del 1945. Zolli già Gran Rabbino di Roma si è appena battezzato ed ha assunto il nome di Eugenio “proprio in ringraziamento a Papa Eugenio Pacelli per quello che aveva fatto nella assistenza agli ebrei”. Il convertito Zolli accompagnato dal gesuita padre Paolo Dezza si reca in udienza dal papa. Zolli domanda al papa di “togliere dalla liturgia quelle espressioni sfavorevoli agli ebrei come “perfidis judaeis”. Pio XII: “fece pubblicare la dichiarazione che “perfidi” in latino significava “increduli” (in “L’Osservatore della Domenica” 28 giugno 1964, articolo “Si lamentano che il Papa non parla ma il Papa non può parlare” pag. 69).
E’ evidente che perfidi in latino non significa increduli. Basta consultare un Vocabolario della Lingua Latina (come il Loescher 1966 nuova edizione 1990) che alla voce perfidus si può leggere:
“perfido, sleale, ingannatore, traditore, pericoloso; sono sleali tutti quelli che fingon di fare una cosa
e ne fanno un’altra”.
Colpisce come la descrizione del vocabolo perfidus sembra la summa di ciò che è stato detto degli ebrei negli ultimi due millenni.
Oltre a ciò, bisogna aggiungere che i fedeli cattolici avevano nei loro Messali in essere durante e dopo il pontificato di Pio XII – fino al Concilio Vaticano II – la traduzione che in italiano definiva i Giudei “perfidi”.
Precisamente nel Messale Vesperale Latino-Italiano edito dalla Casa Editrice Pontificia nel 1957, si leggeva nella liturgia del Venerdì Santo, seconda parte “Le preghiere solenni”, la seguente preghiera:
“Per la conversione dei Giudei. – Preghiamo anche per i perfidi Giudei, affinché il Signore tolga il velo che copre i loro cuori e così riconoscano anch’essi Gesù Cristo nostro Signore.
Orémus. V. Flectàmus génua.- R. Levate.
O Dio onnipotente ed eterno, che non escludi dalla tua misericordia neppure i perfidi Giudei, esaudisci le preghiere che ti rivolgiamo per quel popolo accecato, affinché riconosca Cristo, luce di verità, e così sia liberato dalle tenebre. Te lo chiediamo in nome dello stesso Gesù Cristo.”( Messale Vesperale Latino-Italiano, Casa Editrice Pontificia, 1957, pag. 145, 146).
Era accaduto che Pio XII veniva smentito dalla Casa Editrice Pontificia, praticamente smentiva se stesso.
Bisognerà aspettare il XX secolo, il 1962 e Giovanni XXIII perché l’espressione perfidi giudei venga eliminata dalla preghiera del Venerdì Santo.
Sud Africa: non solo i bianchi
In Sud Africa sta accadendo che “i neri” sudafricani cacciano ed anche uccidono neri immigrati, per esempio, dallo Zimbabwe, la ex Rhodesia.
Secondo la storia che noi studiamo erano i bianchi che usavano violenza ai neri. Erano i coloni bianchi che utilizzavano gli schiavi neri per il loro bisogni.
La storia così raccontata è il frutto della “Storia come maestra di vita”. Della storia come facente parte di un disegno sia esso Teo od aTeo.
Una storia che è come un catechismo dove ad ogni domanda corrisponde una risposta chiara, precisa ed esaustiva.
Ma fratelli neri che uccidono fratelli neri smentiscono tutta questa costruzione. Non esistono colori, popoli, ideologie o religioni buoni o cattivi per definizione.
Tra i Watussi – per noi italiani simpatici protagonisti di una canzone per l’estate di tanti anni fa – il sentimento di superiorità verso popolazioni come i Bantù è del tutto normale.
Ciò non toglie che fra mille contraddizioni furono proprio gli inglesi a porre fine alla tratta degli schiavi cui partecipavano dei re africani.
Ciò non toglie che “i bianchi” abbiano partecipato alla tratta degli schiavi: il nero schiavista non fa il bianco non schiavista e viceversa.
giovedì 15 maggio 2008
rom, zingari, nomadi
In Italia si va ad ondate di emergenze. Di volta in volta gli addetti all’informazione mettono in primo piano le categorie “più colpevoli”.
Solo una settimana fa ad Assisi il sindaco ha emesso una ordinanza che vieta a chi lo fa, di chiedere l’elemosina - accattonaggio è il termine usato che mette non solo in inferiorità ma denota un potenziale delinquente – ad una distanza inferiore ai 500 metri da una chiesa.
Ora ad Assisi, tra S. Rufino, Santa Chiara, Basilica inferiore e superiore, in centro e San Damiano, Rivotorto e la Porziuncola, fuori le mura, per dire solo le più note, vi sono chiese in ogni dove.
Conseguenza: nessuno può più chiedere l’elemosina senza commettere un reato.
L’Assisi di oggi è lo specchio dell’Ordine riorganizzato dall’efficiente e pragmatico Frate Elia successore di Francesco, e non la proposta di vita senza glossa voluta da Francesco che ha riscattato la povertà ed il povero, chiamando la prima Madonna Povertà e il secondo frate, fratello.
Ma la proposta di vita di Francesco d’Assisi era talmente esistenziale che non poteva essere trasposta in un Ordine sia pure mendicante.
Oggi c’è rimasto infatti l’Ordine ma non più il mendicante che viene allontanato dal sagrato di ogni chiesa di Assisi secondo la più ferrea tradizione, dall’autorità civile, poiché la Chiesa, quando può, preferisce che di queste cose se ne occupi l’autorità civile.
C’è poi da chiedersi quale concetto il sindaco di Assisi abbia dei suoi cittadini, ed i frati dei loro fedeli assisani. Se davanti alle chiese o nei loro pressi la presenza dei medicanti è un disturbo, dovrebbe esserlo anche davanti o nei pressi delle case degli abitanti di Assisi.
Si attendono chiarimenti.
Regolamentati i poveri in Assisi, oggi in prima pagina sui giornali campeggiano i rom.
I rom sono brutti, sporchi e cattivi: sono i classici indifendibili della società.
Noi, i sedentari, siamo malvisti dai rom. Loro i rom, sono malvisti da noi sedentari.
C’è un razzismo a senso doppio.
Chi pensa che la bontà risieda, perciò stesso, nella povertà o nell’indigenza fa del buonismo a scopo di lucro ideologico.
Francesco d’Assisi – per riprendere l’esempio di prima - ha colpito, è rimasto nella storia non perché era povero, ma perché era un ricco diventato povero.
Ha scelto la povertà e per questa scelta ha rinunciato ad un sacco di cose: la povertà significa anche, ce lo ha detto Francesco con la sua vita, rinunciare a formare una famiglia.
Tenerissima la scena di Francesco che modella alcuni pupazzi di neve e dice commosso che quella era la sua famiglia alla quale aveva rinunciato.
I poveri in quanto tali non fanno notizia o se la fanno è molto spesso perché infastidiscono.
Quindi sgombriamo subito il campo da tutto quella letteratura pietistica che dipinge il romanticismo della povertà come quelle statue con il capo piegato, gli occhi imploranti che ringraziano in eterno l’eventuale benefattore anche se con loro non sarà tale.
Ci è stata tramandata sì la memoria – l’unica – di un Vescovo, nella fattispecie quello di Assisi, che ha coperto un povero nudo con il suo mantello: quel povero era appunto Francesco che aveva appena fatto l’ultimo atto da ricco disfandosi dei suoi vestiti.
Non ci è stata tramandata memoria di un Vescovo che ha coperto con il suo mantello un povero nato tale.
Si c’è stato nel IV secolo Martino che ha dato metà del suo mantello di lana ad un povero seminudo, ma quando lo ha fatto era un soldato romano. Solo in seguito è diventato Vescovo di Tours.
E poi i rom di cui si parla oggi sui giornali non sono affatto i poveri pietosi o che vogliono impietosire: se lo fanno, impietosire, è spesso “per lavoro”.
Ci si ferma spesso, e spesso solo, sull’attività dei rom rispetto alla società sedentaria, rispetto a noi.
I noi non mettono lo stesso interesse verso l’organizzazione sociale dei rom, i loro usi e costumi.
Scoprirebbero che i rom hanno una organizzazione sociale che è spesso incompatibile con i nostri usi e costumi e leggi.
L’organizzazione sociale dei rom ha nella donna il centro economico. La donna ha una funzione fondamentale nel procurare i mezzi di sussistenza, crescere i figli e trasmettere tradizioni e cultura.
Nonostante la sua importanza operativa la donna zingara ha una posizione subalterna all’interno della famiglia, deve sottostare alle decisioni dei genitori prima e del marito poi, non consuma i pasti con gli altri membri della famiglia e i suoi contatti con la società esterna sono esclusivamente per chiedere l’elemosina e fare la spesa.
I matrimoni sono quasi sempre il frutto di un accordo tra le famiglie degli sposi, in genere ancora adolescenti, senza alcun contributo dei diretti interessati.
Una volta sposate, le donne entrano a far parte della famiglia del marito e devono accettare la sottomissione, oltre che al marito, anche ai suoceri.
Quando la vita con il marito o con i suoceri diventa insopportabile, si allontanano, pagando questo loro atto con la rinuncia dei figli che, secondo la tradizione, appartengono al marito: il sangue dei figli infatti sarebbe soltanto quello paterno.
E’ il maschio il dominatore assoluto e senza contraddittorio.
Quanto dolore nascosto e silenzioso in queste vite.
Se con l’andare del tempo, divenute suocere, sono proprio le donne rom i principali canali attraverso i quali si trasmettono gli usi e costumi appena visti, è proprio tra le giovani rom, più che fra i maschi, che si manifestano casi di ribellione a questo ordine costituito.
Oltre a ciò i rom sono formati da clan che possono essere in lotta tra di loro.
La situazione come si vede è molto complessa ed il problema della povertà è quasi sparito oscurato dal vero problema, quello della cultura nella quale la povertà è una variabile non un fatto costituzionale.
E’ la cultura il problema: la cultura che fa prigionieri quando è una cultura che non rende liberi.
C’è solo un momento nel quale la cultura rom e la società italiana si incontrano almeno potenzialmente alla pari: ed è nella scuola.
Certo la società italiana ha altri momenti di incontro più o meno istituzionali con i rom: assistenti sociali, opere varie in aiuto ai rom. Si tratta però pur sempre di assistenza: dove c’è l’assistenza non c’è parità.
E’ la scuola specie elementare, che in modo inaspettato e straordinario potrebbe riuscire ad essere il contenitore per un incontro di persone – nella fattispecie bambini - che ancora non totalmente integrate nelle proprie e rispettive culture tengono aperti contatti, come fossero spine universali, gli uni verso gli altri.
Certo la parità è solo potenziale, ma seduti tra i banchi i bambini rom e gli altri sono pur sempre nello stesso posto ed a fare la stessa cosa.
Certo la parità è pur solo generazionale: cioè tra i bambini di una stessa classe o scuola.
La parità di incontro anche nella scuola si ferma lì. Gli adulti della scuola siamo essi docenti e non docenti, seppur immersi totalmente nella propria cultura dovrebbero dare il massimo di sé, guardando i bambini rom e vedere nei loro occhi quello che i loro occhi hanno visto e vedono da quando sono nati.
Gli occhi dei bambini rom prima di chiudersi ed addormentarsi la sera dentro ad un furgone o ad una roulotte, vedono intorno a sé tre, quattro, cinque, sei e più fratelli accanto ai propri genitori. Fratelli che ridono piangono, litigano. Genitori che ridono, piangono si accoppiano.
Questo i piccoli occhi dei piccoli bambini rom vedono la sera e la notte se non dormono, in una promiscuità che non ha molto di umano secondo i nostri usi e costumi.
C’è ben poca poesia nella miseria.
Le mani dei bambini rom quando scrivono, non hanno una scrivania colorata su cui poggiare il quaderno. Scrivono probabilmente nell’indifferenza degli adulti rom che hanno intorno, perché la maggioranza di quegli adulti hanno una cultura per lo più orale e non scritta e considerano una perdita di tempo il fatto che i loro bambini stiano lì malamente a scrivere.
Nel migliore dei casi sanno che la scuola italiana li tollererà fino alla prima o seconda media. Poi i bambini rom verranno dalla scuola italiana ignorati con il grande sollievo specie dei maschi rom, capi clan che vedranno così confermato il perpetuarsi della propria cultura che li trova dominatori in un campo nomadi con qualche vecchio furgone o roulotte nel fango quando piove e nella polvere quando è estate.
Ci sono bambini rom, bambine specialmente, le più motivate al cambiamento, che alle elementari si impegnano. Hanno sete di conoscenza, hanno sete di avere amichette da ricevere in casa, da andare a trovare, ascoltare dischi assieme a loro. Ma non hanno casa in cui riceverle. Non sono gradevoli nel vestire e nell’aspetto. Non hanno docce sotto cui lavarsi se non, in quegli anni, quelle che si trovano nella scuola.
Fino a che la società italiana che è in una situazione di forza rispetto a quella rom, non avvicinerà di fatto gli usi e costumi dei rom a quelli previsti per ogni altro cittadino italiano, non potrà a cuor leggero giudicare ciò che i rom fanno verso la società che li circonda. Quello che fanno al loro interno infatti, compreso l'utilizzo dei bambini per produrre reddito, non interessa più di tanto.
Non sono i poveri il problema di Assisi, come non sono i rom il problema dell’Italia poiché hanno tolto più ricchezza sia materiale che morale agli italiani i vari stampatori e venditori di bond argentini od i vari protagonisti di reati finanziari.
Attendiamo dal sindaco di Assisi che emetta una ordinanza secondo la quale non debbano avvicinarsi a non più di 500 metri dalle chiese i pedofili, anche se sacerdoti.
martedì 13 maggio 2008
....190, 191, 192, 193, 194.
In Birmania il mare e l’acqua si sono scatenati contro gli abitanti. Non si conosce il numero dei morti ma è, per ora, nell’ordine di decine di migliaia. Ancora di più i dispersi.
La Cina ieri è stata colpita dal terremoto, anche qui i morti sono decine di migliaia ed i dispersi pure.
Pare che madre Natura in una settimana abbia deciso che in Birmania e in Cina ci fosse molta gente da eliminare.
Cosa avranno fatto in Birmania ed in Cina per meritarsi questi disastri che significativamente chiamiamo, quando sono di queste dimensioni, biblici?
Noi non lo sappiamo ma c’è qualcuno che dovrebbe darci una risposta: questa persona è il Papa.
Il Papa, il Vicario di Dio in terra.
Il Papa dovrebbe spiegarci, con l’aiuto dello Spirito Santo, perché l’altra settimana in Birmania e ieri in Cina, la Natura, la cui legge, Legge di Natura la dottrina della Chiesa riconosce e rispetta, ha colpito quei popoli. Ha colpito persona per persona, fissandone e distruggendone la vita nello stesso momento, tutto questo all’improvviso e senza che quasi le persone se ne potessero rendere conto.
La sacralità della vita è stata così non solo disattesa, ma del tutto ignorata dalla Natura che è, come tutto in questo mondo, governata da Dio.
Il Papa che legifera a tutto il mondo la Legge di Dio, ci dirà certamente perché è successo tutto questo.
Invece no. Per ora il Papa in questi giorni ha avuto in mente due cose: la festa della mamma e un numero, il 194. Gli altri numeri di questi giorni: 10.000 morti, 50.000 dispersi, 100/200.000 senza tetto e così via non lo hanno colpito?
La sacralità della vita tanto proclamata non è evidentemente devastata né da nubifragi, né da terremoti.
La sacralità della vita dell’uomo è insidiata parrebbe solo in Italia ed in particolare da una legge: la 194.
Dove non c’è il diritto c’è spesso qualcosa che si può spiegare con la magia.
Così abbiamo il Capo dello Stato della Città del Vaticano che indica, specificandone il numero, quali sono le leggi sbagliate della Repubblica Italiana.
Abbiamo la Repubblica Italiana il cui Presidente ed il cui Capo del Governo nulla dicono su questo.
E’ evidentemente normale che il Capo di uno Stato che non è l’Italia indichi quali sono le leggi buone o cattive in Italia. Se così è che cosa vanno a votare gli italiani, chi vanno ad eleggere se le leggi degli eletti possono in ogni momento essere delegittimate da un capo di Stato estero che per ironia della sorte ha sede nella stessa capitale della Repubblica Italiana?
La risposta è: nulla e nessuno.
Se è così la Repubblica Italiana è un simulacro.
Ciò si può spiegare solo con la magia.
Come è una situazione magica il fatto che la 194, la legge che regolamenta tra l’altro l’aborto, abbia in calce la firma di un cattolico dell’importanza di Andreotti.
Quando nel 1978 in Italia i cattolici conservavano il potere firmando leggi come la 194, mettevano il loro nome e cognome sotto la 194 per introdurre in Italia la possibilità legale dell’aborto.
Quando nel 2008 in Italia i cattolici, cambiato come si dice il vento, il clima, possono conservare od aumentare il potere abolendo la 194, si muovono con questo obiettivo.
E la difesa della vita dove è in tutto ciò?
Non c’è: la cellula, l’embrione, financo il povero e solitario spermatozoo sono mezzi per fare esistere non l’uomo, ma la Chiesa.
E’ questa la semplice e immorale morale della posizione della Chiesa verso la 194.
E’ la Chiesa che ha “il diritto” di esistere fino alla fine dei secoli per poter portare la Verità. L’uomo, la vita si può invocare o silenziare a seconda la bisogna: l’uomo nasce, vive e muore, la Chiesa resta. Il soggetto non è “l’uomo” o “la donna”, ma “l’esercizio della sessualità”.
Il posto che occupano l’uomo e la donna è il posto del loro utilizzo per assicurare lunga vita alla Chiesa.
Infatti il Signor Ratzinger, Benedetto XVI, il Papa – trinità terrena - affacciandosi ai balconi del suo palazzo e dai balconi televisivi, ha proclamato che:
“Se l’esercizio della sessualità diventa una droga che piega il partner ai propri desideri, allora ciò che si deve difendere non è più solo il vero concetto dell’amore ma in primo luogo la dignità della persona. Non permettiamo che il dominio della tecnica abbia a inficiare la qualità dell’amore e la sacralità della vita” (Avvenire 11.5.2008, pag. 8 ).
Attendiamo indicazioni sul dominio della natura.
….190, 192, 193, 194 chi è fuori è fuori, chi è dentro è dentro.
venerdì 2 maggio 2008
I replicanti
In questi giorni è ritornato in primo piano il corpo. Il corpo vivo, il corpo offeso, il corpo incorrotto.
Il corpo vivo, che gioioso riempie la mano che lo accarezza.
Il corpo offeso della donna austriaca violentata per anni dal proprio padre, dal quale ha avuto molti figli che hanno il padre ed il nonno in una unica persona: un mostro a due teste.
Ma è il corpo incorrotto di San Pio che desta più interesse. Tolto dalla tomba in mondovisione, trattato e poi posto in una teca trasparente, con la sua faccia coperta dalla sua faccia in silicone provenente dal Museo delle Cere di Londra.
Con le sue mani ricoperte da guanti per nascondere le stigmate che non ci sono.
E’ davanti al corpo di San Pio che passano migliaia di persone che vedono quello che non è.
E’ interessante ricordare che per quasi tutto il XX secolo in una capitale d’Europa, Mosca, davanti al corpo incorrotto di Lenin sfilarono milioni di persone che professavano il credo aTeo, così come oggi a San Giovanni Rotondo quelle che sfilano davanti al corpo di San Pio, professano la fede in Teo.
Corpo incorrotto che forse fra qualche secolo si potrà vedere esposto in un museo, come ora nei musei andiamo a vedere le mummie egiziane.
Corpo incorrotto che in quella teca forse è già in un museo senza che noi lo sappiamo.