giovedì 15 maggio 2008

rom, zingari, nomadi

In Italia si va ad ondate di emergenze. Di volta in volta gli addetti all’informazione mettono in primo piano le categorie “più colpevoli”.
Solo una settimana fa ad Assisi il sindaco ha emesso una ordinanza che vieta a chi lo fa, di chiedere l’elemosina - accattonaggio è il termine usato che mette non solo in inferiorità ma denota un potenziale delinquente – ad una distanza inferiore ai 500 metri da una chiesa.
Ora ad Assisi, tra S. Rufino, Santa Chiara, Basilica inferiore e superiore, in centro e San Damiano, Rivotorto e la Porziuncola, fuori le mura, per dire solo le più note, vi sono chiese in ogni dove.
Conseguenza: nessuno può più chiedere l’elemosina senza commettere un reato.
L’Assisi di oggi è lo specchio dell’Ordine riorganizzato dall’efficiente e pragmatico Frate Elia successore di Francesco, e non la proposta di vita senza glossa voluta da Francesco che ha riscattato la povertà ed il povero, chiamando la prima Madonna Povertà e il secondo frate, fratello.
Ma la proposta di vita di Francesco d’Assisi era talmente esistenziale che non poteva essere trasposta in un Ordine sia pure mendicante.
Oggi c’è rimasto infatti l’Ordine ma non più il mendicante che viene allontanato dal sagrato di ogni chiesa di Assisi secondo la più ferrea tradizione, dall’autorità civile, poiché la Chiesa, quando può, preferisce che di queste cose se ne occupi l’autorità civile.
C’è poi da chiedersi quale concetto il sindaco di Assisi abbia dei suoi cittadini, ed i frati dei loro fedeli assisani. Se davanti alle chiese o nei loro pressi la presenza dei medicanti è un disturbo, dovrebbe esserlo anche davanti o nei pressi delle case degli abitanti di Assisi.
Si attendono chiarimenti.
Regolamentati i poveri in Assisi, oggi in prima pagina sui giornali campeggiano i rom.
I rom sono brutti, sporchi e cattivi: sono i classici indifendibili della società.
Noi, i sedentari, siamo malvisti dai rom. Loro i rom, sono malvisti da noi sedentari.
C’è un razzismo a senso doppio.
Chi pensa che la bontà risieda, perciò stesso, nella povertà o nell’indigenza fa del buonismo a scopo di lucro ideologico.
Francesco d’Assisi – per riprendere l’esempio di prima - ha colpito, è rimasto nella storia non perché era povero, ma perché era un ricco diventato povero.
Ha scelto la povertà e per questa scelta ha rinunciato ad un sacco di cose: la povertà significa anche, ce lo ha detto Francesco con la sua vita, rinunciare a formare una famiglia.
Tenerissima la scena di Francesco che modella alcuni pupazzi di neve e dice commosso che quella era la sua famiglia alla quale aveva rinunciato.
I poveri in quanto tali non fanno notizia o se la fanno è molto spesso perché infastidiscono.
Quindi sgombriamo subito il campo da tutto quella letteratura pietistica che dipinge il romanticismo della povertà come quelle statue con il capo piegato, gli occhi imploranti che ringraziano in eterno l’eventuale benefattore anche se con loro non sarà tale.
Ci è stata tramandata sì la memoria – l’unica – di un Vescovo, nella fattispecie quello di Assisi, che ha coperto un povero nudo con il suo mantello: quel povero era appunto Francesco che aveva appena fatto l’ultimo atto da ricco disfandosi dei suoi vestiti.
Non ci è stata tramandata memoria di un Vescovo che ha coperto con il suo mantello un povero nato tale.
Si c’è stato nel IV secolo Martino che ha dato metà del suo mantello di lana ad un povero seminudo, ma quando lo ha fatto era un soldato romano. Solo in seguito è diventato Vescovo di Tours.
E poi i rom di cui si parla oggi sui giornali non sono affatto i poveri pietosi o che vogliono impietosire: se lo fanno, impietosire, è spesso “per lavoro”.
Ci si ferma spesso, e spesso solo, sull’attività dei rom rispetto alla società sedentaria, rispetto a noi.
I noi non mettono lo stesso interesse verso l’organizzazione sociale dei rom, i loro usi e costumi.
Scoprirebbero che i rom hanno una organizzazione sociale che è spesso incompatibile con i nostri usi e costumi e leggi.
L’organizzazione sociale dei rom ha nella donna il centro economico. La donna ha una funzione fondamentale nel procurare i mezzi di sussistenza, crescere i figli e trasmettere tradizioni e cultura.
Nonostante la sua importanza operativa la donna zingara ha una posizione subalterna all’interno della famiglia, deve sottostare alle decisioni dei genitori prima e del marito poi, non consuma i pasti con gli altri membri della famiglia e i suoi contatti con la società esterna sono esclusivamente per chiedere l’elemosina e fare la spesa.
I matrimoni sono quasi sempre il frutto di un accordo tra le famiglie degli sposi, in genere ancora adolescenti, senza alcun contributo dei diretti interessati.
Una volta sposate, le donne entrano a far parte della famiglia del marito e devono accettare la sottomissione, oltre che al marito, anche ai suoceri.
Quando la vita con il marito o con i suoceri diventa insopportabile, si allontanano, pagando questo loro atto con la rinuncia dei figli che, secondo la tradizione, appartengono al marito: il sangue dei figli infatti sarebbe soltanto quello paterno.
E’ il maschio il dominatore assoluto e senza contraddittorio.
Quanto dolore nascosto e silenzioso in queste vite.
Se con l’andare del tempo, divenute suocere, sono proprio le donne rom i principali canali attraverso i quali si trasmettono gli usi e costumi appena visti, è proprio tra le giovani rom, più che fra i maschi, che si manifestano casi di ribellione a questo ordine costituito.
Oltre a ciò i rom sono formati da clan che possono essere in lotta tra di loro.
La situazione come si vede è molto complessa ed il problema della povertà è quasi sparito oscurato dal vero problema, quello della cultura nella quale la povertà è una variabile non un fatto costituzionale.
E’ la cultura il problema: la cultura che fa prigionieri quando è una cultura che non rende liberi.
C’è solo un momento nel quale la cultura rom e la società italiana si incontrano almeno potenzialmente alla pari: ed è nella scuola.
Certo la società italiana ha altri momenti di incontro più o meno istituzionali con i rom: assistenti sociali, opere varie in aiuto ai rom. Si tratta però pur sempre di assistenza: dove c’è l’assistenza non c’è parità.
E’ la scuola specie elementare, che in modo inaspettato e straordinario potrebbe riuscire ad essere il contenitore per un incontro di persone – nella fattispecie bambini - che ancora non totalmente integrate nelle proprie e rispettive culture tengono aperti contatti, come fossero spine universali, gli uni verso gli altri.
Certo la parità è solo potenziale, ma seduti tra i banchi i bambini rom e gli altri sono pur sempre nello stesso posto ed a fare la stessa cosa.
Certo la parità è pur solo generazionale: cioè tra i bambini di una stessa classe o scuola.
La parità di incontro anche nella scuola si ferma lì. Gli adulti della scuola siamo essi docenti e non docenti, seppur immersi totalmente nella propria cultura dovrebbero dare il massimo di sé, guardando i bambini rom e vedere nei loro occhi quello che i loro occhi hanno visto e vedono da quando sono nati.
Gli occhi dei bambini rom prima di chiudersi ed addormentarsi la sera dentro ad un furgone o ad una roulotte, vedono intorno a sé tre, quattro, cinque, sei e più fratelli accanto ai propri genitori. Fratelli che ridono piangono, litigano. Genitori che ridono, piangono si accoppiano.
Questo i piccoli occhi dei piccoli bambini rom vedono la sera e la notte se non dormono, in una promiscuità che non ha molto di umano secondo i nostri usi e costumi.
C’è ben poca poesia nella miseria.
Le mani dei bambini rom quando scrivono, non hanno una scrivania colorata su cui poggiare il quaderno. Scrivono probabilmente nell’indifferenza degli adulti rom che hanno intorno, perché la maggioranza di quegli adulti hanno una cultura per lo più orale e non scritta e considerano una perdita di tempo il fatto che i loro bambini stiano lì malamente a scrivere.
Nel migliore dei casi sanno che la scuola italiana li tollererà fino alla prima o seconda media. Poi i bambini rom verranno dalla scuola italiana ignorati con il grande sollievo specie dei maschi rom, capi clan che vedranno così confermato il perpetuarsi della propria cultura che li trova dominatori in un campo nomadi con qualche vecchio furgone o roulotte nel fango quando piove e nella polvere quando è estate.
Ci sono bambini rom, bambine specialmente, le più motivate al cambiamento, che alle elementari si impegnano. Hanno sete di conoscenza, hanno sete di avere amichette da ricevere in casa, da andare a trovare, ascoltare dischi assieme a loro. Ma non hanno casa in cui riceverle. Non sono gradevoli nel vestire e nell’aspetto. Non hanno docce sotto cui lavarsi se non, in quegli anni, quelle che si trovano nella scuola.
Fino a che la società italiana che è in una situazione di forza rispetto a quella rom, non avvicinerà di fatto gli usi e costumi dei rom a quelli previsti per ogni altro cittadino italiano, non potrà a cuor leggero giudicare ciò che i rom fanno verso la società che li circonda. Quello che fanno al loro interno infatti, compreso l'utilizzo dei bambini per produrre reddito, non interessa più di tanto.
Non sono i poveri il problema di Assisi, come non sono i rom il problema dell’Italia poiché hanno tolto più ricchezza sia materiale che morale agli italiani i vari stampatori e venditori di bond argentini od i vari protagonisti di reati finanziari.
Attendiamo dal sindaco di Assisi che emetta una ordinanza secondo la quale non debbano avvicinarsi a non più di 500 metri dalle chiese i pedofili, anche se sacerdoti.


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